Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, durante l’estate non è stato vittima di una canzone, dalla musica ritmata e ballabile, sovente accompagnata da un testo stupido, che si è insinuata nella mente anche contro la vostra volontà. Bene: siete state vittime di un “tormentone estivo”.
Il “tormentone” era una canzone che da fine maggio ai primi di settembre si diffondeva come una sorta di virus su tutte le stazioni radio, in tv, nei bar, sulle spiagge, nei villaggi, nei locali, nei centri commerciali per poi entrare nelle orecchie di tutti, dagli amanti del rock ai discotecari, dai neoromantici ai metallari, nessuno escluso.
Il motivetto colpiva facilmente anche perché d’estate le difese immunitarie diminuiscono, l’ascolto diventa meno critico e, quindi, il soggetto è più disponibile a recepire. Era una canzone semplice, scritta apposta per essere ripetuta fino alla noia ma, come detto, dalla vita brevissima – tre mesi, quattro al massimo – sufficiente però a segnare indelebilmente un’estate e scolpirsi nella memoria dell’ascoltatore, tanto che – in qualche occasione – ci si ricordava benissimo del titolo, del ritornello, della musica e un po’ meno dell’interprete.
Ne scrivo al passato, perché oggi il tormentone non c’è più. Il motivo? Non solo è cambiata la società, è cambiato – soprattutto – il modo di fruire la musica. Negli anni Sessanta la canzone, oltre alla radio nazionale della Rai (che, per inciso, trasmetteva pochissima musica leggera) doveva conquistare un solo media: il juke box, re incontrastato dei locali pubblici, dove l’avventore poteva decidere cosa ascoltare e per quante volte. Poi, con la fine del monopolio Rai e l’arrivo delle radio e delle tv private, il “tormentone” trova altri canali nel quale diffondersi.
Oggi il panorama è completamente cambiato: il juke box è diventato un pezzo da museo, le manifestazioni canore estive, come il Festivalbar o Un disco per l’estate, sono state chiuse, e il virus del “tormentone” (almeno quello canoro) è stato definitivamente debellato dall’iPod, dove ciascuno di crea la propria compilation e, di conseguenza, il proprio “tormentone”. Per gli addetti ai lavori, l’ultimo vero tormentone estivo è datato 2002: si tratta di Aserejé cantata dal trio femminile spagnolo Las Ketchup. La canzoncina, con testo insignificante e abbinata a un balletto con una coreografia ruffianissima da “ballo di gruppo”, ha venduto 2 milioni e 500mila copie nel mondo in soli quattro mesi.
Poi più niente, eccezzion fatta, nel 2006, per Seven Nation Army dei White Stripes, quelli del “Po-popopo-popo-po”, un successo, però, drogato dalla vittoria degli azzurri ai Mondiali di calcio in Germania.
Da allora le estati sono un po’ più povere e non sono pochi quelli che provano nostalgia. Perché tutti, dalla quarantina in su, hanno in comune una colonna sonora “balneare”, composta da brani a cui si è legati in modo affettivo, canzoni che non sono mai state abbandonate, che sono presenti oggi e che lo saranno per il resto della vita, al di là dei gusti musicali, degli studi e dello stato sociale raggiunto di ciascuno.
Ogni tormentone ricorda un momento particolare, una località, un viaggio, una persona; un po’ come sfogliare un album fotografico. Oggi che la canzone dell’estate non c’è più, il termine tormentone viene usato – anzi, abusato – per indicare particolari fenomeni ricorrenti, siano essi politici (il governo cade o non cade?), sportivi (quando si discute sul trasferimento di un calciatore) o di costume (le due ragazze di Ostia intervistate in un tg che, alla domanda su come combattevano il caldo afoso in spiaggia, risposero: «Chennesò? Pijo ‘n Calippo o ‘na bira») caratteristici del periodo estivo.
Ma le hit da spiaggia erano un’altra cosa.
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